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Mea Culpa

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Nell’aprile 1994 Padre Athanase Seromba, era sacerdote della parrocchia di Nyange, nel Ruanda occidentale. Nel Paese era in corso una guerra civile, hutu contro tutsi. Migliaia di cadaveri giacevano per le strade, molti finiti a colpo di machete. Millecinquecento tutsi si erano rifugiati nella sua parrocchia. Il sacerdote aveva fatto entrare in chiesa la popolazione in fuga dalle milizie hutu con la promessa che nessuno avrebbe osato toccarli. Ma l’edificio si trasformò in una prigione messa in piedi da Seromba con la complicità delle autorità locali. Seromba, dopo aver tenuto i rifugiati prigionieri per giorni all’interno della sua chiesa, senza acqua né cibo diede l’ordine di spianare l’edificio con i bulldozer, mentre i miliziani hutu sparavano, lanciavano granate e si accanivano a colpi di machete contro chiunque tentasse la fuga. Testimoni hanno raccontato che una sera Seromba entrò in chiesa e portò via i calici per la comunione e i paramenti sacri. Un rifugiato lo pregò di lasciarli in chiesa per un’ultima messa, ma il sacerdote disse che l’edificio da quel momento non era più una chiesa. Un altro gli chiese di pregare per loro. La risposta fu: “Credete che il Dio dei tutsi sia ancora vivo?”. Nel 2008 il Tribunale Penale Internazionale per i Crimini in Ruanda istituito dalle Nazioni Unite lo ha condannato all’ergastolo per genocidio.

Dopo aver  per negato per ventidue anni il coinvolgimento nei massacri in Ruanda la Chiesa ha chiesto perdono per i crimini contro l’umanità e genocidio commessi dai suoi appartenenti. “Ci scusiamo per gli errori commessi dalla Chiesa”, è scritto in un documento che il 20 novembre 2016, il giorno della chiusura del Giubileo straordinario, è stato firmato da nove vescovi in rappresentanza di tutte le diocesi del Ruanda e letto nelle parrocchie. “Siamo rammaricati che appartenenti alla Chiesa abbiano violato il giuramento di fede ai comandamenti di Dio.” Il documento riconosce per la prima volta che membri della Chiesa abbiano preso parte al genocidio in cui oltre ottocentomila persone, in gran parte tutsi ma anche hutu moderati, sono stati uccisi da estremisti hutu. “Perdonateci per i crimini di odio nel Paese e anche per aver odiato i nostri colleghi per motivi etnici,” si legge nel documento. “Non abbiamo dimostrato di essere una famiglia e invece ci siamo uccisi l’uno con l’altro.”

Philippe Rukumba, vescovo della diocesi di Butare ha affermato che la pubblicazione del documento coincide con la chiusura del Giubileo della misericordia, sottolineando che il papa ha chiesto di non rimanere in silenzio. Jean Pierre Dusingizemungu, presidente di Ibuka, organizzazione di aiuti ai sopravvissuti al genocidio in Ruanda ha affermato che queste scuse, a lungo attese, porteranno alla giustizia, alla lotta contro l’ideologia del genocidio e aiuteranno a ricostruire la nazione. “Alcuni sacerdoti e membri della chiesa credevano di essere al sicuro davanti al silenzio della Chiesa ma ora le cose cambieranno” ha aggiunto, ”ora che la chiesa ha ammesso che vi sono sue persone che hanno commesso genocidio.”

Il ruolo della Chiesa è stato criticato in molti Paesi teatro di crimini contro la popolazione civile commessi da regimi al potere, come in Argentina ad esempio, durante la dittatura militare degli anni settanta. Ma negli ultimi decenni in nessun altro Paese come in Ruanda ha raggiunto proporzioni così marcate.  Fino ad oggi in Ruanda la Chiesa si era sempre rifiutata di confrontarsi con quel terribile passato e con  il ruolo svolto da suoi rappresentanti nel massacro, parlando spesso di complotti contro il Vaticano e trincerandosi dietro la responsabilità personale delle eventuali ‘mele marce’. Ma i resoconti giudiziari e la storia raccontano tutt’altro.

Durante la prima guerra mondiale la gestione del Ruanda, incorporato allora nell’Africa Orientale Tedesca, venne affidata dalla Società delle Nazioni al Belgio in amministrazione fiduciaria con obiettivo finale l’indipendenza, ottenuta poi nel 1962. Per secoli le tre tribù ruandesi hutu (80%), tutsi e twa condivisero la stessa cultura, lingua e religione. Quando il Belgio assunse il controllo al posto della Germania  instaurò un rigido sistema coloniale di separazione etnica e sfruttamento. Concesse la supremazia ai tutsi, prevalentemente pastori, alimentando un profondo risentimento tra la maggioranza di etnia hutu, tradizionalmente agricoltori.

In realtà il concetto di etnia venne introdotto dai colonizzatori tedeschi e belgi e secondo molti studiosi la distinzione fra i due gruppi non è altro che una differenza di classe sociale e non etnica anche perché non vi sono significative differenze somatiche, genetiche, religiose, linguistiche o culturali. Hutu, tutsi e twa erano già presenti nella regione dei Grandi Laghi prima dell’arrivo dei belgi e dei missionari. Ma l’odio ‘etnico’ nacque da una strategia di potere. E la Chiesa, potente istituzione in un Paese africano in cui gran parte della popolazione è cattolica, riuscì ad esercitare  a lungo un monopolio totale sulla ricerca storica e antropologica accreditando l’idea di gruppi ‘etnici’ separati. La divisione in identità etniche fu insomma il risultato dell’opera sistematica del ‘divide et impera’, portato avanti dai colonizzatori europei con l’aiuto dei missionari. Dividere la popolazione in gruppi  ‘superiori’ e ‘inferiori’, ‘ricchi’ e ‘poveri’, ‘nilotici’ e ‘bantu’ era la ricetta per costruire e rafforzare il potere.

Inizialmente la Chiesa si schierò con il gruppo dominante tutsi, vicino all’antica monarchia nonché al potere. Ma la ‘rivoluzione sociale’ del 1959 cambiò lo scenario. I belgi cedettero il controllo del Ruanda alla maggioranza hutu.  E la Chiesa abbandonò i tutsi in favore degli hutu.  Divenne allora paladina degli ‘oppressi’  hutu,  che dovevano difendersi dai tutsi, sempre pronti a riconquistare l’antico potere.  Iniziò un lungo periodo di segregazione e massacri anti-tutsi. Centinaia di migliaia di tutsi, ma anche hutu, furono costretti all’esilio. Nel 1973 Juvénal  Habyarimana, ministro della difesa,  salì al potere con un colpo di stato. Guerre e massacri continuarono fino al 1993, ma il peggio doveva ancora avvenire.

Vincent Nsengiyumva, oltre che arcivescovo di Kigali, dal 1976 fino al momento della sua morte nel giugno del 1994, era anche il presidente del comitato centrale del partito di governo che pianificò i massacri contro i tutsi. In quel periodo la Chiesa formò  l’élite hutu radicale che guidò il Paese nei decenni successivi all’indipendenza. Nelle scuole gestite da ecclesiastici venivano insegnate teorie che accreditavano una differenza fisica marcata fra hutu e tutsi. L’idea che l’élite dominante dei tutsi al tempo della colonizzazione fosse una minoranza di ‘privilegiati’ che aveva  per anni tenuto sottomesse le masse povere hutu era ormai radicata. Il Paese si stava mentalmente preparando al massacro.

Le Nazioni Unite negoziavano intanto un accordo per la divisione del potere che stava per essere firmato quando l’aereo che trasportava il presidente ruandese fu abbattuto in circostanze non chiare. Fu la scintilla che fece scoppiare il genocidio. In poco più di tre mesi un numero di persone  vicino a un milione fu massacrato. Donne, bambini, uomini, trucidati a colpi di machete perché appartenevano alla ‘etnia sbagliata’. I tutsi venivano chiamati ‘scarafaggi’ dagli altoparlanti della Radio delle Mille Colline.

Il mea culpa tardivo ora della Chiesa non basta a cancellare gli orrori. Jean Baptiste Rutihunza è un sacerdote ricercato dall’Interpol, accusato di ‘genocidio, complicità in genocidio e crimini contro l’umanità’, si legge nella scheda diffusa dall’interpol. Ha 68 anni e vive a Roma. La Corte d’appello di Roma ha negato  due anni fa l’estradizione in Ruanda. E’ chiamato anche il boia di Gatara. Rutihunza era sacerdote di una struttura religiosa gestita dai Fratelli della Carità presso la cittadina di Gatara, in Ruanda. Il centro ospitava nel periodo del massacro, fra aprile e luglio 1994, centinaia di bambini con gravi problemi motori. Stando alle testimonianze  avrebbe indicato a gruppi paramilitari hutu i bambini disabili tutsi da prelevare e uccidere. A Gatara, secondo il Tribunale penale Internazionale per il Crimini in Ruanda, nei mesi del massacro furono uccisi 4.338 bambini e i cadaveri gettati in fosse comuni. Secondo notizie non confermate Rutihunza lavorerebbe a Roma presso la congregazione religiosa di appartenenza.

Wenceslas Munyeshyaka nella primavera del 1994 era parroco della chiesa della Sainte Famille, a Kigali, capitale del Ruanda. Alcuni sopravvissuti al massacro lo hanno accusato di torture, stupri e trattamenti degradanti nei confronti di coloro che avevano cercato protezione presso luoghi di culto. Avrebbe consegnato alle squadre della morte liste con nomi di persone da prelevare dalla chiesa per poi essere trucidate in altri luoghi. E’ stato processato e condannato all’ergastolo in contumacia da un tribunale militare ruandese. Si trova attualmente in Francia dove è stato arrestato e poi rilasciato in virtù di cavilli burocratici. Esercita il ministero sacerdotale in un piccolo paese della provincia francese.

Padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare dell’esercito, è stato condannato in appello a ventitre anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità. Nel 1994 era responsabile del seminario minore San Leone di Gitarama. Secondo quanto appurato dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini in Ruanda, Rukundo consegnò alle milizie hutu diversi cittadini tutsi ospitati nel suo seminario. Dopo la fine del genocidio, l’ex cappellano militare si trasferì in Svizzera, dove riuscì ad ottenere lo status di rifugiato. Nel 2001 fu arrestato su richiesta del Tribunale Penale Internazionale e condannato a venticinque anni di detenzione.

L’Associazione African Right racconta la storia di Gertrude Mukangango, madre superiora del convento di Sovu, in provincia di Butare, e della sua consorella Julienne Kizito. Quando cominciarono i massacri suor Gertrude accolse nel  convento diverse famiglie tutsi in fuga. Poi, una mattina, decise di consegnare le persone da assassinare. Una sopravvissuta al massacro ha affermato di aver visto suor Julienne, che collaborava attivamente con la superiora, indicare alle squadre della morte un tutsi che lavorava come assistente nel convento. La religiosa stessa aveva poi cosparso di benzina l’uomo per consentire ai miliziani di bruciarlo vivo. Le due consorelle vennero accolte presso il monastero belga di Maredsous. La madre badessa, alla notizia che le due suore erano ricercate per crimini contro l’umanità disse di essere convinta che  si trattasse di accuse false.  Le due suore sarebbero state  in seguito processate e condannate in Belgio, Mukagango a quindici anni e Kizito a dodici anni di detenzione  in base al principio della giurisdizione universale, secondo cui uno Stato può perseguire un crimine commesso in un altro  Stato da cittadini stranieri se si configura come crimine contro l’umanità.

21.11.2016

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