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Il Piccolo Grande Gambia

Il Piccolo Grande Gambia
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Da quasi tre anni Myanmar, ex Birmania, guidata di fatto dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, è nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani per la sistematica persecuzione verso la minoranza musulmana Rohingya. Il coro internazionale contro il regime birmano unisce molti Paesi occidentali. Ma solo la Repubblica del Gambia, il più piccolo Paese dell’Africa continentale, ha deciso di portare Myanmar davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, con l’accusa di genocidio, in base alla Convenzione per la Prevenzione del Genocidio, sottoscritta sia dal Gambia che da Myanmar. Il sistema delle Nazioni Unite consente anche ai Paesi più piccoli e meno forti politicamente sull’arena internazionale di chiedere conto anche ai potenti di atti sconfinanti nel genocidio e in crimini contro l’umanità. Le istanze vengono presentate alla Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite (ONU) creato nel 1945 per dirimere le controversie internazionali da parte dei singoli stati.

In base all’articolo 2 della Convenzione del 1948 un genocidio si definisce tale quando causa uno o più dei seguenti: uccisione dei membri del gruppo; gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; infligge deliberatamente sul gruppo condizioni di vita che portino alla sua completa o parziale distruzione fisica; impone misure intese a prevenire le nascite all’interno del gruppo; trasferisce forzatamente i bambini del gruppo ad altro gruppo. Una missione indipendente nel 2018 divulgò un rapporto in cui si evidenzia che l’azione di Myanmar minaccia l’esistenza dei Rohingya come gruppo, con uccisioni di massa, distruzione di case, stupri e divieto di accesso all’alimentazione.

Gambia, il più piccolo Paese dell’Africa continentale

Perché il Gambia, piccolo Paese con meno di due milioni di abitanti, grande come l’Abruzzo, si è fatto è portavoce delle istanze di una minoranza perseguitata? Il Gambia, quasi un’enclave del Senegal, circondato su tre lati e con uno sbocco al mare di solo ottanta chilometri, è uscito quattro anni fa da oltre un ventennio di brutale dittatura. Forze di sicurezza e gruppi paramilitari seminavano il terrore insieme alle squadre della morte guidate dal dittatore Yayha Jammeh. Portavano avanti arresti arbitrarti, torture, esecuzioni e la gente scompariva senza lasciare traccia. Nel 2016 il Gambia è riuscito a liberarsi del regime. L’attuale presidente Adama Barrow è stato eletto dopo una campagna incentrata sui diritti umani e sulla lotta alla corruzione.

Abubacarr Tambadou ministro della giustizia Gambia

Ma è soprattutto l’azione di Abubacarr Tambadou a spingere il Paese verso la giustizia internazionale. Il Ministro della Giustizia è colui che si sta maggiormente battendo per provare che quanto commesso negli ultimi tre anni in Myanmar corrisponde ad un genocidio in base alla Convenzione. Tambadou quest’anno si è recato nei campi profughi dei Rohingya, minoranza musulmana di Myanmar buddista. Ottocentomila persone sono state costrette alla fuga in Bangladesh. In una recente intervista ha detto che proprio ascoltando i racconti dei sopravvissuti ha potuto sentire ‘il fetore del genocidio’. “Civili e militari hanno organizzato attacchi sistematici contro i Rohingya, hanno incendiato le loro case, hanno preso i bambini dalle braccia delle loro madri e gettati vivi tra le fiamme, hanno rastrellato e giustiziato uomini, hanno compiuto stupri di massa nei confronti di ragazze.” Tambadou ha riferito che queste scene raccapriccianti gli ricordavano il genocidio in Rwanda del 1994, in cui morirono ottocentomila persone. Per tredici anni Tambadou ha lavorato nell’ufficio del Procuratore presso il Tribunale Internazionale per i crimini in Rwanda. “Era lo stesso modo di operare, un processo di disumanizzazione, chiamatelo come volete, ma ha tutto il marchio di un genocidio. Nella mia mente ho concluso che si è trattato di un tentativo da parte delle autorità di Myanmar di distruggere completamente il gruppo etnico Rohingya.”

Aung San Suu Kyi, ministro degli esteri Myanmar

A difendere l’operato del governo di Myanmar, a l’Aja, nel Palazzo della Pace, sede della Corte Internazionale di Giustizia, c’era Aung San Suu Kyi, un tempo considerata paladina dei diritti umani. Oggi molti Paesi chiedono che le venga revocato il premio Nobel per la pace conferitole nel 1991 quando lottava per la libertà del suo popolo contro la dittatura militare, ma ora di fatto ritenuta da molti complice di quello stesso regime. Aung ha sostenuto che le accuse del Gambia sono basate su un quadro sviante e incompleto della situazione. Il Gambia ha chiesto alla Corte di imporre delle misure temporanee per far sì che i Rohingya possano tornare nelle loro case in sicurezza. La Corte ha intimato a Myanmar di produrre entro quattro mesi un rapporto sulle misure intraprese per il rientro pacifico dei Rohingya. Successivamente Myanmar dovrà presentare rapporti semestrali dettagliati sulla situazione fino a quando la Corte non emetterà il suo verdetto, presumibilmente fra un paio d’anni. Le prime conseguenze di quanto sta accadendo in sede legale giungono dalla Germania. Il mese scorso il ministro tedesco dello sviluppo ha reso noto che la Germania ha deciso di sospendere la cooperazione per lo sviluppo a favore di Myanmar a causa della ‘pulizia etnica’ della minoranza Rohingya.

16.03.2020

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