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Chi controlla l’Interpol?

Chi controlla l’Interpol?
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Se qualcuno ha commesso un crimine ed è fuggito all’estero la polizia può rivolgersi all’Interpol perché emetta un avviso, chiamato ‘red notice’, una specie di mandato di cattura internazionale che consente a quasi ogni Paese del mondo di arrestare il ricercato. Solo una parte delle richieste delle polizie si tramuta in red notice. L’articolo 3 della Costituzione di Interpol recita: “è strettamente proibito per l’Organizzazione intervenire su attività di carattere politico, militare, religioso o razziale“. Ma è veramente ciò che accade?

Matthew Hedges, studente dottorando britannico, nel maggio 2018 si era recato negli Emirati Arabi Uniti per delle ricerche. All’aeroporto di Dubai, nel giorno della partenza, è stato arrestato con l’accusa di spionaggio. Per sette mesi detenuto in isolamento in una prigione di Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti (EAU). Per por fine alla prigionia ha confessato di essere una spia dei servizi segreti britannici. Condannato all’ergastolo è stato poi graziato e liberato, presumibilmente dopo l’intervento delle autorità britanniche. Tornato in patria Hedges ha detto di aver subito torture e abusi e si è rivolto all’alta corte di Londra per avere giustizia. Ha accusato quattro funzionari degli EAU fra cui l’allora ispettore generale del ministero dell’interno, il Maggiore Generale Ahmed Nasser Al-Raisi. Dal 25 novembre scorso Al Raisi è il nuovo presidente dell’Interpol.

La presidenza dell’Interpol non è nuova a controversie. Dal 2004 al 2008 presidente era Jackie Selebi, condannato in Sudafrica, il suo Paese, a quindici anni di detenzione per corruzione. Dal 2016 al 2018 a capo dell’Interpol era il cinese Meng Hongwei, condannato al suo rientro in patria a tredici anni di detenzione per tangenti. Il presidente viene eletto a scrutinio segreto, quindi il risultato dell’urna scaturisce dopo accordi dietro le quinte fra i vari Paesi. Il presidente attuale Al Raisi è stato denunciato più volte. Quando era ispettore generale del ministero dell’interno degli EAU è stato denunciato o additato come responsabile o complice in altre presunte violazioni dei diritti umani. L’avvocato di un difensore dei diritti umani ha denunciato in quello stesso periodo atti di ‘tortura’ e ‘atti di barbarie’ nei confronti del suo cliente, un cittadino arrestato negli EAU. In una prigione di Abu Dhabi si trova tra l’altro anche uno dei maggiori difensori dei diritti umani, Ahmed Mansoor, condannato lo scorso anno a dieci anni di detenzione per ‘insulti’ al ‘prestigio’ del Paese e dei suoi leader. Mansoor aveva pacificamente espresso opinioni contrarie al governo nel suo giornale online.

Ali Issa Ahmad è un tifoso inglese arrestato negli Emirati dove si era recato per assistere alla Coppa d’Asia di calcio tre anni fa. Arrestato durante l’incontro Iraq-Qatar perché indossava una maglietta con il logo del Qatar, Paese con cui i vicini del Golfo, compresi gli Emirati Arabi, avevano rotto i rapporti diplomatici. Ahmad è stato torturato per una settimana. Al Raisi era anche allora ispettore generale del ministero dell’interno.

Ahmed Jaafar sostiene di essere stato sottoposto a maltrattamenti e torture in Bahrein nel 2007 quando venne arrestato dopo aver partecipato a manifestazioni di protesta scoppiate in seguito a presunti abusi da parte delle forze di polizia. Poi venne rilasciato e nel 2013 lasciò il Bahrein. Quello stesso anno è stato condannato in contumacia all’ergastolo dopo essere stato riconosciuto colpevole di “unirsi a un gruppo con l’intenzione di disturbare l’ordine pubblico e usare il terrorismo per mettere in pericolo la sicurezza del Bahrein”. Questa condanna è alla base di un ‘red notice’ emesso dall’Interpol. Nel febbraio 2015 è stato condannato a un secondo ergastolo e privato della cittadinanza per l’uccisione di un agente di polizia degli EAU e due agenti del Bahrein. Ahmed Jaafar si è sempre detto estraneo a quei fatti. Tre dei suoi coimputati sono stati giustiziati nel gennaio 2017, dopo confessioni che secondo un giornale locale sono state firmate sotto tortura. “Un’uccisione extragiudiziale” l’ha definita Agnés Callamard, Segretaria generale di Amnesty International e allora relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali. Nel novembre scorso Ahmed Jaafar è stato arrestato in Serbia. Dopo una serie di udienze il ministro della giustizia serbo ha approvato la sua estradizione il 18 gennaio. Durante la sua detenzione Ahmed Jaafar ha chiesto asilo politico. Il Centro di Belgrado per i Diritti Umani si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti Umani. Il 21 gennaio la Corte ha emesso un provvedimento temporaneo bloccando l’estradizione, con la richiesta alla Serbia di ottenere dal Bahrein una serie di informazioni, tra cui le condizioni carcerarie e il rischio di torture o maltrattamenti cui Ahmed Jaafar potrebbe sottostare. La Corte ha intimato alla Serbia di non procedere comunque con l’estradizione almeno fino al 25 febbraio. All’alba del 24 febbraio Ahmed Jaafar è stato consegnato a funzionari del Bahrein e caricato su un aereo di una compagnia privata presieduta da un membro della famiglia regnante di Abu Dhabi. Sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che il diritto serbo vietano l’espulsione, il respingimento o l’estradizione di qualsiasi persona in un altro Stato in cui potrebbe essere a rischio di tortura o trattamenti o pene inumani o degradanti. “L’Interpol e le autorità serbe hanno messo a grave rischio un uomo fuggito dalla torture di una prigione del Bahrein e che ha cercato rifugio in Europa“, ha detto Joe Store, vice direttore settore Medioriente dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. “E’ terrificante e inspiegabile che Serbia e Interpol abbiano collaborato per estradare un dissidente nonostante un’ordinanza contraria della Corte Europea per i Diritti Umani.” Le decisioni della Corte sono vincolanti per i 47 Paesi membri del Consiglio Europeo di cui fa parte la Serbia. La mancata osservanza può rappresentare una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’Interpol si trova coinvolto in situazioni che mettono in dubbio la sua credibilità e soprattutto il ruolo di un’organizzazione preposta ad aiutare la giustizia internazionale e che sta invece diventando un’arma in mano a regimi oppressivi. Nel 2001 i red notice resi pubblici erano meno di 1500. Oggi sono circa diecimila ogni anno. In realtà in totale sono circa 70mila, ma nella maggior parte si tratta di nomi e informazioni riservati. Possibile che i presunti o veri criminali siano aumentati in modo così esponenziale? Può essere un caso che i numeri siano cresciuti considerevolmente soprattutto per richieste provenienti da Paesi autoritari? 3030 richieste dalla Russia, oltre il 40 per cento. Molte vengono respinte dall’Interpol se non vengono seguiti criteri specifici. Dopo il fallito golpe in Turchia del 2016 il governo di Ankara ha cercato di inserire nella lista 60mila cittadini che il presidente Erdogan considera simpatizzanti dei suoi nemici politici. I Paesi democratici difficilmente consegnano dissidenti a regimi autoritari. Ma dove la democrazia non regna sovrana il rischio è reale. Lo scorso anno Idris Hassan, attivista uigur che vive in Turchia, è stato arrestato in Marocco. I cinesi di etnia uigur, turcofoni di religione musulmana della regione del Xinjiang, da anni sono soggetti a discriminazioni dal governo cinese. Un milione di cittadini uigur sono detenuti in centinaia di campi di ‘rieducazione’. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha chiesto al Marocco di non procedere con l’estradizione, in base all’articolo 3 della costituzione Interpol. La Corte di Cassazione del Marocco si è già espressa a favore dell’estradizione in Cina. Manca solo la firma del Capo di stato e del ministro della giustizia.

Il presidente dell’Interpol è una figura dell’organizzazione al più alto livello. Ma l’operativa è affidata ai tredici membri del Comitato esecutivo. Il prossimo banco di prova per l’Interpol potrebbe essere Hong Kong, restituita alla Cina dal Regno Unito nel 1997 ma con la clausola che per cinquant’anni sarebbe stata in vigore la formula ‘un Paese due sistemi’. Hong Kong avrebbe continuato ad essere indipendente dalla madrepatria per cinquant’anni. Ma così non è stato. Il governo di Pechino ha esteso di fatto la sua legge sulla sicurezza nazionale anche a Hong Kong. Lo scorso anno John Lee, funzionario del governo di Hong Kong, ha detto che “chi è accusato di aver infranto le leggi sulla sicurezza nazionale ed è fuggito all’estero sarà perseguito per tutta la vita in base alla legge di Hong Kong sulla sicurezza nazionale.” Il mese scorso l’organizzazione non governativa Safeguard Defenders in una lettera a Interpol ha chiesto di non colpire oppositori politici di Hong Kong. Chi ha evitato l’arresto rifugiandosi all’estero sente il fiato sul collo. E i segnali non sono incoraggianti. Lo scorso novembre l’Assemblea Generale dell’Interpol ha eletto membro del Comitato esecutivo Hu Binchen, vicedirettore generale del dipartimento cooperazione internazionale del ministero della pubblica sicurezza cinese.

22 febbraio 2022

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