Il Silenzio di Aung San Suu Kyi
Mentre l’Europa è impegnata a erigere muri e barriere per contenere l’ondata di migrazione dall’Africa e dal Medioriente, a ottomila chilometri di distanza, sul Golfo del Bengala, si consuma una tragedia davanti all’indifferenza del mondo intero. I Rohingya, un milione e duecentomila persone, musulmani che da secoli vivono di pesca e agricoltura nella regione di Rakhine nel Myanmar nord occidentale (ex Birmania), scappano da persecuzione, violenza e morte. Da trent’anni vengono cacciati dalla loro terre. Non hanno diritti. Fuggono verso Thailandia o Bangladesh, il Paese da cui vennero alcuni secoli fa per insediarsi nella Birmania buddista. Sono i boat people della Birmania. Ma nessuno li vuole. Molte minoranze in Birmania hanno dovuto sottostare a violenza e discriminazione negli ultimi decenni, ma nessuna come i Rohingya. Secondo l’ONU sono tra le minoranze più perseguitate del mondo. Cittadini senza cittadinanza. Non hanno identità. Eppure esistono.
“Conferiamo il Premio Nobel per la Pace ad Aung San Suu Kyi per onorare gli sforzi infaticabili di questa donna per il sostegno ai molti nel mondo che lottano per la democrazia, i diritti umani e la riconciliazione etnica con mezzi pacifici.” Leader politici, intellettuali, organizzazioni per i diritti umani, unanimi salutarono con entusiasmo le parole del Comitato norvegese per il Nobel che conferì nel 1991 la massima onorificenza per la pace a colei che come pochi altri poteva dar voce a chi lotta per la democrazia e i diritti umani. Una sorta di Mahatma Gandhi odierno. L’ex premier inglese Gordon Brown in un libro la descrive ‘modello di coraggio civico per la libertà’.
Venticinque anni dopo Aung San Suu Kyi è stata nominata a ricoprire vari incarichi nel nuovo governo, fra cui ministro degli esteri e Consigliere di Stato, una sorta di primo ministro. Di fatto è il leader del Paese. Il novanta per cento dei birmani sono buddisti. Ma esiste una cospicua minoranza di indu e musulmani che lamenta discriminazioni, vessazioni, violenza. In primo luogo i Rohingya che ripongono le speranze sulla Signora– the Lady, come viene chiamata Aung San Suu Kyi. Ma le aspettative sono andate deluse. Ha lottato per i diritti dei suo popolo quand’era prigioniera politica, ma non risponde ora alle richieste di soccorso di una minoranza discriminata a cui vengono negati i diritti primari, istruzione, religione, cittadinanza, sostentamento. Rifiuta di chiamare i Rohingya con il loro nome perché così facendo darebbe loro un’identità che la maggioranza buddista non vuole conferire. Al termine di un’intervista con una giornalista della BBC, non pensando di essere udita, si rivolse a un suo collaboratore dicendo “perché non mi avete detto che la giornalista era musulmana?” In quella stessa intervista a una domanda sulle sofferenze dei musulmani Rohingya e sul perché non si stia attivando in loro sostegno, Aung San Suu Kyi rispose “anche i buddisti hanno sofferto.”
Figlia di un generale, capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, la vita di Aung San Suu Kyi è stata travagliata fin dai primi anni. All’età di due anni, suo padre, dopo aver negoziato l’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, fu ucciso da alcuni avversari politici. Sua madre divenne figura politica di grande rilievo e fu nominata ambasciatrice in India nel 1960. Frequentò le migliori scuole indiane e poi inglesi. Continuò gli studi a New York, dove lavorò per le Nazioni Unite e dove incontrò il suo futuro marito con cui ebbe due figli. Ritornò in Birmania nel 1988. In quegli anni il generale Saw Maung prese il potere e instaurò un regime militare che ancora comanda in Myanmar. Fortemente influenzata dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi e dai concetti buddisti, entrò in politica fondando la Lega Nazionale per la Democrazia nel 1988. Un anno dopo subì gli arresti domiciliari. Gli fu concesso di lasciare il Paese, ma rifiutò. Nel 1990 la schiacciante vittoria elettorale del suo partito, di fatto le garantiva la poltrona di primo ministro, ma i militari annullarono il voto. L’anno dopo vinse il premio Nobel per la Pace. Gli arresti domiciliari le furono revocati nel 1995, ma rimase in uno stato di semilibertà e non poté lasciare il paese perché le sarebbe stato negato il ritorno in patria. E ai suoi familiari non fu mai consentito di visitarla. Tra le varie onorificenze ricevute vi sono una laurea honoris causa in filosofia dall’Università di Bologna e la medaglia d’oro del Congresso americano – “meritato onore”, si legge, “per una donna straordinaria che ha guidato la lotta per la libertà e la democrazia nel suo Paese.” Nel 2012 ottenne un seggio al parlamento. Solo allora riuscì a ritirare il premio Nobel di persona, undici anni dopo il conferimento. Lo scorso novembre vinse le prime elezioni libere in oltre cinquant’anni. Due mesi fa è stata nominata ministro degli esteri e Consigliere di Stato.
In questa donna, confinata agli arresti domiciliari per quindici anni, sinonimo di coraggio davanti ai soprusi della dittatura e ora finalmente al potere, tanti hanno visto la speranza di un cambiamento in un Paese in cui il forte ha sempre schiacciato il debole. Ma per i Rohingya nulla è cambiato. Forse il timore di mettersi contro i nazionalisti buddisti o di sentire di nuovo la voce grossa dell’esercito. Aung San Suu Kyi, dopo un colloquio con il segretario di stato americano John Kerry, rispondendo ai giornalisti sulla questione dei Rohingya ha detto: “cercate i capire le difficoltà che stiamo affrontando. Dateci spazio per risolvere tutti i nostri problemi.”
Ma intanto i Rohingya sono di fatto prigionieri nel loro Paese, hanno limitato accesso all’istruzione, sono soggetti a detenzione arbitraria, lavori forzati, confisca dei beni. Senza un permesso non possono spostarsi in altri villaggi, non possono sposarsi, non possono registrare la nascita di un figlio. Ed è vietato loro avere più di due figli. Dopo le violenze del 2012, oltre 130mila Rohingya sono stati confinati in squallidi campi profughi in cui viene negato l’accesso agli enti umanitari.
Ciò che sta accadendo a Myanmar è un crimine contro l’umanità. E’ pulizia etnica, denuncia Human Rights Watch, organizzazione per i diritti umani. “In un genocidio, il silenzio è complicità e questo vale per Aung San Suu Kyi”, ha osservato Penny Green, docente di giurisprudenza all’Università di Londra. “Ha un capitale politico e morale enorme”, ha detto, “avrebbe potuto sfidare il razzismo e l’islamofobia che caratterizzano la politica e la società birmana.” Ma non l’ha fatto.
23.05.2016
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