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Banzai

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Trecentocinquanta militari giapponesi sono giunti a Juba per dare il cambio ai loro colleghi. Sono stati assegnati al settore ingegneria e costruzioni della capitale del Sud Sudan. In apparenza un semplice avvicendamento nell’ambito della missione di pace dell’ONU di cui il contingente giapponese fa parte. Ma non è così. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale potranno sparare per primi in un Paese straniero a difesa del personale ONU e aprire il fuoco se si sentono minacciati. Cade di fatto un tabù che ha resistito per settant’anni.

La Costituzione giapponese, entrata in vigore il 3 maggio 1947 durante l’occupazione americana seguita alla seconda guerra mondiale, proibisce l’esistenza di forze armate giapponesi. Il capitolo 2, articolo 9 recita così: ‘Aspirando sinceramente alla pace internazionale basata su giustizia e ordine, il popolo giapponese per sempre rinuncia alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come metodo per la soluzione delle dispute internazionali. Per raggiungere questo scopo non saranno mai mantenute forze terrestri, navali e aeree.’ Per non turbare la Costituzione l’esercito è chiamato ‘Forze di Autodifesa’. Ma già da una ventina d’anni il Giappone invia soldati all’estero nell’ambito delle missioni di pace dell’ONU. Alcune decine di soldati hanno pattugliato le alture del Golan, fra Siria e Israele sotto e in altri Paesi, quali Cambogia e Afghanistan. E ora in Sud Sudan con 350 soldati.

In realtà il Giappone ha già aggirato la sua Costituzione pacifista. Lo scorso anno il Primo ministro Shinzo Abe e il suo partito liberal democratico, nonostante numerose manifestazioni di piazza contrarie,  hanno fatto approvare una legge che consente ai soldati giapponesi di prendere parte a conflitti all’estero, di fatto rinnegando le politiche precedenti che consentivano alle forze armate solo di difendersi, così come stabilito dalla Costituzione. La nuova legge, entrata in vigore il 29 marzo di quest’anno, consente ai soldati giapponesi di operare all’estero ‘a sostegno degli alleati in azioni di autodifesa collettiva’. I soldati appena giunti in Sud Sudan potranno ora  sparare a difesa del personale ONU ma anche se a loro giudizio si sentono minacciati.

L’estate scorsa il rinnovo di metà della Camera Alta ha consentito al partito del primo ministro di ottenere in entrambi i rami del Parlamento una maggioranza di due terzi dei seggi. Ciò consentirà al premier Abe nei prossimi due anni del suo mandato di cercare di cambiare l’articolo 9 della Costituzione per garantire così anche una copertura giuridica nei confronti dei  ricorsi contro la legge approvata lo scorso anno che potrebbe essere giudicata incostituzionale. Non sarà semplice perché oltre all’approvazione dei due terzi del Parlamento sarà necessario un referendum e attualmente la maggior parte dei cittadini continua a essere contraria alla modifica dell’articolo 9 della Costituzione. Già oggi, secondo un sondaggio del quotidiano Asahi Shimbu, il 56 per cento dei giapponesi è contrario al dispiegamento dei soldati  in Sud Sudan con le modalità attuali che aggirano la Costituzione.

Oggi il Giappone è l’ottavo Paese al mondo come bilancio di spesa militare (l’Italia è dodicesima). Possiede trecento unità navali, trecentosessanta aerei da combattimento e missili. Il personale può contare su duecentocinquantamila unità. Un trattato con gli Stati Uniti garantisce la sicurezza del Paese. Oltre cinquantamila soldati americani sono dislocati in ottantacinque basi e località diverse in Giappone. Quasi trentamila sono dislocati in Corea del Sud. Il bilancio di spesa americano per il mantenimento delle operazioni in Giappone per l’anno iniziato il primo ottobre scorso è di cinque miliardi e mezzo di dollari. Il trattato scadrà a metà 2018 e potrebbe essere rinnovato o modificato. Con Donald Trump presto in sella a Washington già spirano venti di cambiamento. Il prossimo inquilino della Casa Bianca ha già fatto capire che non intende più saldare il conto per provvedere alla sicurezza degli alleati in Asia come Europa e che vuole rivedere sia i trattati militari che commerciali.

Non è certo un caso che Abe sia stato il primo capo di un governo straniero a precipitarsi a stringere la mano a Trump pochi giorni dopo il voto americano. Oltre alla questione delle spese militari americane per le basi in Giappone, Trump ha fatto capire che intende rinunciare o perlomeno rinegoziare il Trattato Trans-Pacifico di scambio commerciale raggiunto solo un anno fa ma non ancora ratificato. Per il Giappone si tratta di uno spazio commerciale necessario a contenere l’espansionismo della Cina, che non a caso è stata esclusa dal Trattato cui hanno aderito invece dodici Paesi. Si tratta del più grande accordo di libero scambio mai raggiunto nella storia recente, destinato ad abbattere le barriere al commercio fra Paesi che rappresentano oltre un terzo della produzione economica mondiale. Ma la ragione di questo viaggio di Abe alla Trump Tower forse non è stata solo economica. Lo scorso aprile durante un’intervista televisiva Trump disse che il Giappone potrebbe difendersi dalla minaccia nordcoreana con un suo arsenale nucleare. In un’altra intervista disse che era giunta l’ora di riconsiderare la politica americana di non permettere al Giappone di dotarsi di armi nucleari, perché ciò accadrà comunque. E’ solo questione di tempo.

Con la fine dell’Unione Sovietica e della guerra fredda l’interesse militare del Giappone è sempre più concentrato sulla Cina e sulla Corea del Nord. Con la Cina, uno dei cinque Paesi ufficialmente dotati di armi atomiche, il Giappone ha un contenzioso territoriale per le isole Senkaku-Diaoyu. La Corea del Nord non ha fatto mistero sulle sue intenzioni nucleari in fatto di armamenti ed è diventata, sia per gli Stati Uniti che per il Giappone, una questione di non facile soluzione anche in considerazione dell’imprevedibilità del leader nordcoreano.

Il Giappone ha sempre ribadito che il suo programma nucleare ha esclusivamente finalità pacifiche, rifuggendo, come unico Paese vittima dell’atomica, da qualsiasi idea che possa minimamente far pensare ad un uso non pacifico dell’energia nucleare. Il Giappone è uno dei Paesi  firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare, che prescrive il disarmo, la non proliferazione e l’uso pacifico del nucleare. Nel Paese operano quarantatré reattori nucleari. Prima dell’incidente di Fukushima fornivano circa il trenta per cento del fabbisogno energetico. E il programma era di raggiungere il quaranta per cento. In un impianto di trattamento di combustibile nucleare esausto, attraverso un processo chimico chiamato riprocessamento, viene separato il combustibile nucleare nelle sue principali componenti, fra cui uranio e plutonio. Questo consente di recuperare nuovo combustibile e quindi avere una maggiore resa energetica dalla stessa quantità di uranio naturale estratto originariamente dalla miniera. Ma il plutonio così generato può essere utilizzato anche per produrre ordigni atomici. Un reattore consuma mediamente in un anno mezza tonnellata di plutonio e il Giappone attualmente ha quarantasette tonnellate di riserve di plutonio, praticamente quanto gli Stati Uniti e la Russia. Solo Francia e Gran Bretagna ne hanno di più. Ma tranne il Giappone, sono tutte potenze nucleari dichiarate. Queste riserve giapponesi di plutonio potenzialmente potrebbero essere usate per fabbricare settemilasettecento ordigni atomici, ognuno della potenza di quello sganciato a Nagasaki nel 1945.

Il tragico incidente alla centrale nucleare di Fukushima in seguito al terremoto del 2011, costrinse il Giappone a bloccare la costruzione di quattordici nuovi reattori, ma dopo l’ascesa al potere dell’attuale premier Abe, il Paese sta riattivando la sua politica nucleare. Attualmente oltre ai quarantatré reattori nucleari attivi, altri due sono in costruzione e ne sono previsti altri nove.  “Il Giappone è un Paese rispettabile  dal punti di vista del Trattato per la non proliferazione nucleare” ha detto James Acton, direttore del Programma di politica nucleare e senior associate alla Carnegie Endowment for International Peace, “ma da il cattivo esempio perché se un altro Paese cominciasse ad accumulare plutonio o uranio arricchito potrebbe rifarsi al precedente giapponese.”

Il Giappone nel marzo scorso ha trasferito negli Stati Uniti trecentotrentuno chilogrammi di plutonio, materiale sufficiente a costruire cinquantaquattro bombe atomiche come quelle di Nagasaki. Una goccia in un mare rispetto alle quarantasette, non chilogrammi, bensì tonnellate di plutonio giapponese. Un quantitativo enorme di riserve che ha spinto alcuni a dubitare sulle intenzioni pacifiche del nucleare giapponese.

Il trasferimento di questo quantitativo di plutonio in America, più che un tentativo di dare il buon esempio, è il risultato delle preoccupazioni americane. Gli Stati Uniti temono che gruppi terroristici possano impossessarsi di materiale nucleare per fabbricare ordigni atomici e la quantità di plutonio custodito in Giappone è molto elevata. Hanno perciò chiesto al Giappone di trasferire una parte del plutonio in territorio americano considerato più sicuro. Il gruppo ambientalista americano Savannah Rivers Site Watch ha chiesto alle autorità americane  di spingere il Giappone a fermare la produzione e lo stoccaggio di plutonio perché potrebbe portare alla minaccia di una possibile proliferazione nucleare. L’argomento sarà presumibilmente affrontato alla scadenza del trattato bilaterale fra Giappone e Stati Uniti, che include anche un capitolo sull’uso pacifico dell’energia nucleare.

In una recente intervista Nobumasa Akiyama, docente di politica per la sicurezza nucleare alla Università Hitotsubashi di Tokyo ha detto: “Si tratta di una quantità eccezionalmente grande [di plutonio] e rimane difficile per gli Stati Uniti rispendere alla domanda perché Washington lasci in pace il Giappone e invece faccia pressioni su altri Paesi perché rispettino gli obblighi della non proliferazione.” La Corea del Sud, rivale strategico del Giappone, ha già espresso il desiderio di avviare un suo impianto per il trattamento del combustibile nucleare esausto. La Cina ha ripetutamente chiesto che il Giappone riduca le sue riserve di materiale nucleare. E Turchia ed Egitto stanno facendo pressione affinché sia loro consentito, come al Giappone, di riprocessare il combustibile nucleare.

30.11.2016

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