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Dove la Spada è più potente della Penna

Dove la Spada è più potente della Penna
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Nel 44 a.C, poco dopo l’uccisione di Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone scrisse il trattato De Officiis, in cui intendeva riflettere su quale potesse essere il miglior comportamento di un funzionario pubblico. Cicerone criticò il modo autoritario e dittatoriale di Giulio Cesare sostenendo come l’assenza di diritti politici corrompesse la moralità. Giulio Cesare pose fine alla Roma repubblicana aprendo le porte alla Roma imperiale. Dopo la sua morte tutti gli imperatori romani furono chiamati Cesari. ‘Cedant arma togae’ – ‘Le armi cedano il posto alla toga’, scrisse l’oratore filosofo, cioè la legalità prenda il posto della forza. Quasi duemila anni dopo il drammaturgo inglese Edward Bulwer-Lytton scrisse ‘Richelieu’, opera sul cardinale che fu l’arbitro della politica francese all’inizio del Settecento e che riuscì a ristabilire il prestigio della Francia e l’autorità della monarchia. ‘Per paralizzare i Cesari prendetegli la spada. Non serve per salvare lo Stato’, dice Richelieu nell’opera di Lytton…’dietro ai grandi uomini di governo la penna è più potente della spada’. In altre parole, un Cesare può vincere servendosi delle armi ma manipolando il consenso si sopprime la libertà di un popolo.

La spada si è abbattuta sulla penna lo scorso anno. Come l’anno precedente e quello prima e quello prima ancora… Ventisette giornalisti sono stati uccisi nel 2021 per aver raccontato fatti non graditi. Quasi trecento sono in carcere, in gran parte con l’accusa di aver commesso crimini contro lo stato, ma molti anche per aver divulgato ‘notizie false’. Nel rapporto annuale pubblicato dal Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), con sede a New York, l’India nel 2021 ha raggiunto il primo posto nella macabra classifica con quattro giornalisti uccisi, seguita dal Messico con tre.

L’11 giugno 2021 Sulabh Srivastava, 42 anni, giornalista di ABP News, agenzia di stampa indiana e tv locale, di base a Pratapgargh, nello stato dell’Uttar Pradesh, aveva scritto alla polizia: “…il 9 giugno è apparso un mio servizio sulla mafia dell’alcool. Ho sentito da alcune fonti che la mafia dell’alcool non è contenta e potrebbe farmi del male. Quando esco di casa ho la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. La mia famiglia è preoccupata.” Due giorni dopo il suo corpo è stato trovato accanto a una fabbrica di mattoni. La polizia l’ha definito inizialmente ‘un incidente di motocicletta’.

La cultura dell’impunità, incoraggiata dagli atteggiamenti di una parte della politica, sta mettendo in India solide radici, sempre più difficili da estirpare. L’India è sempre stata ritenuta la più grande democrazia del mondo. Dopo la salita al potere del premier Narendra Modi con il suo partito della destra nazionalista indù Bharatiya Janata, ha perso questo suo primato. Dalla sua nascita dalle ceneri dell’impero britannico nel 1947 l’India ha sempre rivendicato con orgoglio la sua laicità. Ma oggi è in corso la ‘hindutva’, l’induizzazione della società e di conseguenza una demonizzazione dei non-indù, in primo luogo i musulmani – duecento milioni di abitanti. La tensione è salita a livelli intollerabili in molte regioni del Paese con il governo che mantiene il mirino sempre più vigile sulla stampa che non asseconda l’agenda indù del primo ministro.

Il Messico quest’anno è avviato a superare l’India nella ‘classifica’ di CPJ. Heber Lopez, direttore del giornale online Noticiasweb, è stato ucciso mentre stava lasciando lo studio di registrazione a Salina Cruz, sulla costa meridionale del Messico. Il giorno prima del suo assassinio aveva accusato pubblicamente di corruzione un ex funzionario comunale, sostenendo che avesse tentato di costringere la gente locale a votarla nelle imminenti elezioni comunali. Lopez è il quinto giornalista ucciso in Messico nel solo mese di gennaio 2022.

Giornalisti vengono uccisi per aver indagato e raccontato ciò che sta accadendo nei loro Paesi. Il fotogiornalista freelancer Soe Naing il 10 dicembre scorso è stato arrestato mentre stava scattando delle foto a Yangon, Myanmar, a un gruppo di persone durante uno ‘sciopero silenzioso’ contro il regime militare salito al potere un anno fa. Poi è stato portato in un edificio militare per essere interrogato. Tre giorni dopo la sua famiglia è stata informata che Joe è morto in un ospedale militare di Yangon.

Un centinaio di giornalisti sono stati arrestati a Myanmar, almeno ventisei sono ancora detenuti, conseguenza del colpo di stato che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi. Myanmar non è tuttavia in cima alla lista nel numero dei giornalisti in prigione. Per il terzo anno consecutivo il primo posto spetta alla Cina, con almeno cinquanta giornalisti dietro alle sbarre. Molti regimi hanno approfittato dell’attenzione del mondo rivolta ai problemi legati ai cambiamenti climatici e soprattutto al covid 19 per mettere in pratica la loro avversione verso la stampa non accondiscendente. Il presidente della Bielorussia ha perfino fatto dirottare sulla capitale Minsk un aereo di linea fra la Grecia e la Lituania pur di arrestare un giornalista inviso al potere, Roman Protasevic, accusato di vari crimini fra cui incitamento all’odio e cospirazione. Se condannato rischia decine di anni di prigione. Aleksandr Lukashenko è così riuscito a garantire un posto alla Bielorussia fra i primi cinque Paesi al mondo nella classifica del CPJ nel maggior numero dei giornalisti detenuti.

Per la prima volta entra in classifica Hong Kong per ‘merito’ della legge repressiva cinese che è riuscita a liberarsi delle voci dissenzienti come quella di Jimmy Lai, fondatore del popolare Apple Daily. Leggi liberticide sono state approvate su misura dal governo di Pechino verso l’ex colonia britannica, in barba alla costituzione di fatto e agli accordi con il Regno Unito. Nel 1997 Londra restituì Hong Kong a Pechino con la clausola che avrebbe regnato per cinquant’anni il principio ‘un Paese due sistemi’, senza interferenze esterne. E invece ecco la calma forzata tornare sovrana a Hong Kong, grazie a manganelli e arresti. Intanto nella madrepatria veniva sentenziato a quattro anni di detenzione il giornalista Zhang Zhan ‘per aver creato liti e suscitato problemi’. Zhang si era permesso di criticare la risposta iniziale cinese alla pandemia. Nella classifica non viene tenuto conto per ora di circa un milione di detenuti uigur di etnia turcofona e di religione musulmana nel Xinjang, ufficialmente in ‘campi di rieducazione’. Nessun giornalista indipendente è riuscito a entrare in uno dei centinaia di campi di detenzione, eccetto un breve tour organizzato dal governo in cui alcuni giornalisti hanno potuto riscontrare i ‘benefici’ del soggiorno obbligato degli uigur.

A terzo posto nella classifica CPJ figura l’Egitto con almeno venticinque giornalisti in carcere nel 2021. Sempre in Africa una menzione di rilievo spetta ad Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia, premio Nobel per la pace 2019, ‘per i suoi sforzi’, dice la motivazione nel conferire l’onorificenza, ‘per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale e in particolare per la sua iniziativa decisiva a risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea’. Secondo invece una recente inchiesta del New York Times il primo ministro etiope ancor prima di ricevere il premio Nobel aveva pianificato insieme al suo ex-nemico e ora nuovo alleato, il presidente eritreo Isaias Afwerki, una guerra contro il nemico comune nella regione del Tigrè, nella parte settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea. Secondo organizzazioni per i diritti umani sta qui per avvenire un genocidio nei confronti della popolazione locale, in gran parte appartenente all’etnia tigrina, invisa tanto al potere eritreo quanto a quello etiope.

Alcuni Paesi sono scesi di alcuni gradini in questa classifica del CPJ. Significa che la spada è stata accantonata e che la stampa sta forse diventando più libera nel mondo? Nulla di tutto ciò. La Turchia, ad esempio, da anni stabilmente sul podio per numero di giornalisti in carcere, ha visto molti dei suoi giornalisti abbandonare la professione, perciò gli arresti si sono ridotti. Tre anni fa nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul venne ucciso il giornalista saudita Jamal Khashoggi e il cadavere smembrato, su mandato dell’erede al trono Mohammed bin Salman, secondo i servizi segreti americani. Da allora l’effetto intimidatorio si è fatto ancor più sentire e il silenzio stampa è diventato abituale almeno quanto i salamelecchi internazionali al futuro re saudita.

L’autocensura è un’altra arma fra le più più dirompenti su cui il potere autoritario conta per vincere la battaglia contro la corretta informazione. Ignorare un fatto rilevante può essere utile ad evitare fastidi giudiziari o una causa legale difficile da sostenere anche in termini economici. Nei casi estremi può anche salvaguardare la propria incolumità o perfino la vita. Qui entra in gioco la forza e la credibilità di un Paese per fare in modo attraverso le leggi che ciò non avvenga, impedire non solo la disinformazione di qualsiasi provenienza ma anche per eliminare qualsiasi forma di censura ma soprattutto di autocensura, la forma più nascosta e perciò più insidiosa per la libertà di stampa. La più autorevole democrazia del mondo, gli Stati Uniti, offre una riflessione. Oltre mezzo secolo fa la Suprema Corte facendo seguito ad un caso giudiziario che coinvolse il New York Times stabilì che per diffamare un funzionario pubblico non è sufficiente provare che il fatto non sia vero o che danneggi la sua reputazione ma che il presunto diffamatore – solitamente il giornalista o l’editore – abbia agito con malizia, non curandosi se il fatto fosse vero o ben sapendo che fosse falso. Attraverso un altro caso giudiziario che coinvolge in questi giorni lo stesso giornale, la più alta corte degli Stati Uniti potrebbe ora non considerare più l’errore casuale di un giornalista come il semplice risultato di una stampa libera. E se così fosse sarebbe soggetto più facilmente a richieste di risarcimenti che di fatto diventerebbero l’anticamera dell’autocensura.

Ci aspettiamo che la battaglia per una stampa libera sia portata avanti anche su questa sponda dell’Atlantico dalla più alta istituzione del nostro continente, il Parlamento europeo. Il neo-presidente Roberta Metsola ha l’occasione per farsi portavoce delle istanze del suo Paese, Malta, del nostro continente e di tutta la stampa del mondo: esigere giustizia completa per la morte avvenuta il 16 ottobre 2017 a Malta della giornalista Daphne Caruana Galizia. La giornalista era riuscita con il suo lavoro a far emergere il coinvolgimento di politici e personaggi del governo di allora nello scandalo dei Panama Pampers che fece scalpore in un tutto il mondo per il coinvolgimento di personaggi della politica, dell’imprenditoria, dello sport, dello spettacolo di tutto il mondo in giri d’affari e investimenti illegali o comunque oscuri. In un rapporto di oltre 400 pagine un gruppo di giudici maltesi ha concluso che lo stato ‘ha fallito nel riconoscere i rischi reali e immediati che correva la giornalista…i tentacoli dell’impunità hanno raggiunto altri organismi e la polizia, portando al collasso della legalità’ chiedendo un’azione immediata per interrompere i legami fra politica e affari. In un comunicato la famiglia Caruana Galizia ha scritto: ‘Speriamo che ciò che è uscito dal rapporto porti al ripristino della legalità a Malta e l’effettiva protezione dei giornalisti e la fine dell’impunità per i funzionari corrotti sui quali stava indagando Daphne. Questa è un’opportunità storica per assicurare un vero cambiamento per la sicurezza dei giornalisti…’ In altre parole, la penna deve vincere sulla spada. Ovunque.

13 febbraio 2022

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